Ho pubblicato un libro!

[…] e ti sentirai il più fortunato della terra.

Nient’altro avrà più importanza

e tutto sembrerà importante.

Ti sentirai il dio sole,

riderai del tempo che fugge,

ce l’avrai fatta,

lo sentirai dalle dita

fino alle budella,

e sarai diventato,

finché dura,

un fottutissimo scrittore

che rende possibile l’impossibile,

scrivendo parole,

scrivendole,

scrivendole.

[Parole, Bukowski]

 

Charles Bukowski è morto nel marzo 1994, mi pare evidente che il suo spirito si sia perso per strada e abbia vagato per undici mesi prima di trovare il mio corpo e prenderne il controllo.

 

Bubbole a parte: HO PUBBLICATO UN LIBRO! Non avevo voglia di trovare un titolo migliore per questo post, perché il senso è proprio HO PUBBLICATO UN LIBRO e voglio che lo sappia l’intero universo.

Scrivo un articolo per raccogliere tutte le curiosità che posso soddisfare al momento, oltre che autocelebrarmi e fomentarmi davanti ad uno specchio.

 

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1) Il titolo?

Cuordileone e il suo re, pubblicato e distribuito da Capponi Editore.


2) Di cosa parla il libro?

Potrei porre la risposta in tanti modi, ma diciamo che lascio parlare la quarta di copertina:

Un’anima immortale legata a doppio filo ad un giovane nato quasi due secoli dopo, uno spirito e un comune essere umano, angelo custode e protetto. E per Daniel Bright e il suo Adam la cosa potrebbe concludersi qui. Ai loro occhi non c’è nulla di straordinario in questo. L’universo li ha fatti incontrare, senza possibilità di scelta.
Ma questo non è semplice da capire, perché nessun altro può percepire la presenza di Adam. Dunque credere nella sua esistenza è un enorme atto di fede, che in pochi sono disposti a fare. Daniel Bright cresce distinguendo le persone tra “chi crede negli angeli” e “gli idioti” e il cinismo che vede attorno a sé lo porta a chiudersi sempre di più al mondo.
Con Adam al suo fianco, passa una vita per entrambi totalmente normale. Finché non arriva qualcosa capace di sconvolgere il loro equilibrio: il primo, travolgente, folle amore.


3) …Davvero hai scritto ‘sta roba?


3) Cos’è, il nuovo Twilight?


3) Ma non ti era passata la fase angeli?


Smettete di farmi domande cattive!!!
Suvvia.

3) Cosa dobbiamo sapere sul libro?

Meglio. Grazie.
Dovete sapere che è un ibrido, un esperimento che ho deciso di portare avanti nella speranza che non risulti troppo caotico e ambiguo.
Mi spiego: il protagonista di Cuordileone e il suo re è un ragazzo che, quando scopre di essere omosessuale, ha paura di raccontarlo in giro perché l’ultima volta che ha rivelato un segreto a qualcuno, non è andata bene.
Il suo custode è il suo segreto, di cui ha parlato a famiglia e amici quando era troppo piccolo per concepire la discrezione. Infatti, a diciassette anni viene guardato dalla maggioranza come se fosse pazzo, addirittura pericoloso per se stesso, quindi il timore di sortire lo stesso effetto per via della sua sessualità lo fa chiudere a riccio.
Io sono fatta così, mescolo cose che trovo interessanti nel tentativo di creare una storia senza precedenti.

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4) Il genere?

Un urban fantasy a tema LGBT+, ovvero un romanzo che presenta un elemento sovrannaturale senza addentrarsi in mondi immaginari. Quindi specifichiamo subito che, se aprite il volume alla prima pagina, non troverete la mappa del setting né il vocabolario di un linguaggio inventato da me.


5) A chi è rivolto?

A chi cerca qualcosa di diverso. A chi in questa stagione si accoccola su quella poltrona davanti la finestra, con il plaid e un libro. A chi ha apprezzato Pride, The Danish Girl, I segreti di Brokeback Mountain, ma ogni tanto vorrebbe intrattenersi con qualcosa di più leggero. A chi appartiene alla A di Allies (Alleati) e chi risponde a tutte le altre lettere della sigla LGBT+. A chi non sa ancora come incasellarsi, ma ha un possibile coming out che gli ronza in testa.

 

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6) Dove possiamo trovare questo fantasticissimo romanzo?

Oh che bello, grazie di questo complimento spontaneo e sincero!
Il libro è disponibile in forma cartacea sul sito ufficiale di Capponi Editore, e presto sulle piattaforma online di Feltrinelli e Mondadori. Sarà anche possibile ordinarlo in qualsiasi punto vendita delle suddette librerie!
Naturalmente aggiornerò l’articolo quando il libro uscirà e potrò incorporare i link e informazioni più precise.
Non è mica finita qui! Potete acquistare il libro direttamente da me, partecipando ad una delle serate di promozione di Cuordileone e il suo re. Per quelli che mi conoscono di persona, sarà una gioia condividere con voi un momento così importante. Per quelli che non mi conosco ma vogliono partecipare lo stesso, forse voi siete quelli a cui sarò più grata, perché decidere di regalarmi il vostro tempo e ascoltare le mie fanfallonerie sarebbe un enorme atto di fiducia.
Se avete altre curiosità, vi toccherà raggiungermi il 20 novembre 2017 da Brown&Co.
Via Tacito 22.
Ore 19:30.
A questo punto non rimane altro da dire che GIVE ME YOUR MONEY- ehm! Cioè, spero di aver attirato la vostra attenzione con la mia aura angelica e il totale disinteresse per il vil denaro.
Con affetto,
l’autrice.

Posterei ma non voglio

Non ho il talento della mia sorellona scrivendo di natura, fiori, farfalle, i doni della Dea Madre e il senso della vita, sssooooo don’t blame me. Per articoli fatti bene in tal senso, andate sul suo blog.

Di recente ho realizzato di soffrire di dipendenza da iperstimolazione – patologia inventata da me. Per essere più precisi, è successo quando sono arrivata a giocare al Nintendo mentre guardavo – anzi, ascoltavo – un episodio di Modern Family su Netflix. Penso di aver preso l’abitudine usando un video su YouTube per intrattenermi quando devo caricare la lavastoviglie o stendere i panni. E ancora ne guardo uno mentre bevo il caffè la mattina. E ancora mentre faccio quei dieci minuti di cardio. Ho trovato un Sacro Graal, capite? Sono in compagnia anche quando sono da sola! Tutto fantastico, finché la cosa non ti prende la mano. Di me ha preso fino al gomito, perché l’idea di pranzare senza un film sotto gli occhi e nessuno che mi parli mi fa ancora rabbrividire.

Con questa premessa, il mio spirito di sopravvivenza ha accolto con piacere la prospettiva di passare un paio di giorni nel Parco Nazionale della Sila, ovvero un’enorme distesa di montagne e pini in Calabria, dove mia zia ha una casetta. Lì, per quarantott’ore, nemmeno per un attimo ho avuto linea internet.

 

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Così, invece di disperarmi cercando un angolo in cui prendesse il telefono – come avrei fatto fino a due settimane fa -, ho deciso di godermi quello che c’era da vedere. Sembra un voto nobile e idilliaco, che dovrebbe farmi sembrare un modello di essere umano che ritorna alle origini e magari sente la voce di Dio da un focolare. Invece no.

 

Mi sono rilassata, mi sono stancata – soprattutto le gambe -, ho respirato, ho riso di gusto e ho ascoltato versi e rumori che non conoscevo. Ma mi sono anche annoiata, magari dopo la prima mezz’ora in riva al lago a fissare l’acqua e chiedermi come mi facesse sentire. Non dirò nulla che Fedez e J-AX non abbiano già cantato, ma il problema è che la noia viene demonizzata in una società che ci abitua a stancarci troppo presto di ogni cosa.

 

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Quindi ho abbracciato anche la noia, sforzandomi di andare oltre lo scopo di intrattenermi.

Dovremmo addentrarci nelle teorie di Piaget per risalire al momento in cui abbiamo scoperto il mondo e abbiamo pensato “Ogni cosa è fatta in funzione di noi”. Anche se ora siamo grandi e sappiamo che il sole esiste per illuminare altri oltre alla nostra persona, il bambino egocentrico resta dentro di noi e si guarda intorno aspettando di trovare qualcosa che sia lì affinché possa usufruirne. Il mio bambino interiore non è neanche troppo interiore e ho rischiato di scalciare e frignare in pubblico rendendomi conto che la natura non era lì per me, la natura era lì e basta. Non era una foto da scattare, né un commento da ispirare. O anche sì, dato che il selfie è qui sopra il paragrafo, ma per qualche motivo il bambino ha pensato che, dopo essersi interfacciata con me, la bellezza sarebbe sparita. Perché insomma, non c’era altro da fare con lei.

Elaborando questa riflessione, con il tempo necessario, con il silenzio, ho finalmente capito come mi sentissi. Come mi sento. Squallida. Materialista. Persa tra mille distrazioni.

La cosa peggiore è stata non potermi staccare di dosso quella viscida sensazione, visto che nonostante tutto continuavo a voler raccontare tale disagio alla ragazza con cui chatto su WhatsApp da mattina a sera. Perché un’emozione non esiste finché non riesco a dirlo a qualcuno, finché non ci aggiungo emoji per descriverla, o la pubblico su un social per farmi invidiare o compatire. Non esiste se resta di mio esclusivo possesso.

 

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Non potendo interrompere il circolo vizioso, perché tanto avrei fatto foto stupide con mia cugina per suscitare la sopracitata invidia virtuale, perché tanto avrei rotto il mio voto per giocare al Nintendo prima di dormire, perché tanto al primo wifi gratuito in un bar avrei mandato email per dire a tutti di essere ancora viva… ho provato un’altra strada. Ho deciso di rendere quantomeno utile il mio disagio. Non ho fatto parola a nessuno dei questi pensieri, per avere modo di riportarli qui. Pubblicati sul mio blog, dunque l’ennesimo mezzo tecnologico, ma almeno posso usarli nel modo giusto. Non chiedetemi perché, scrivere per me è sempre il modo giusto.

 

Ci sono state occasioni in cui, per un momento, sono riuscita a ripulirmi dal viscidume. Quando, in riva al lago, ho improvvisato un’impacciata versione di un video per principianti de La Scimmia Yoga. Insomma, quel video lo avevo seguito una volta sola e mi ricordavo ben poche posizioni, ma – caspiterina – ho fatto yoga in riva ad un lago!

 

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E quando un cavallo mi ha portato a passeggio in un bosco e tra campi di patate, quello mi ha davvero spento il cervello. Mi era mancato cavalcare, le gambe intorpidite e il sudore dietro la nuca di cui ti accorgi solo quando ti togli il cap. E’ una di quelle cose che facevo quando il mio telefono era un Nokia3310 e Facebook nel mio mondo non esisteva. Al massimo un nickname colorato su MSN, ma solo quando a mio fratello non serviva il suo computer.

Ho concluso che tanto non smetterò mai di fare tutto quello che faccio adesso, urlare sui social e guardare serie tv compulsivamente. Però forse posso ritagliare del tempo per riabituarmi a fare altro, forse posso ricominciare l’equitazione, forse posso seguire un corso di yoga. Chissà.

 

E comunque: no sorellona, non ci verrò sulla cima del Kilimangiaro con te, non voglio disintossicarmi a tal punto.

 

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Confessiamoci: Teen Wolf

Titolo deliberatamente rubato a Yotobi.

 

 

Chi mi conosce sa che corrispondo in pieno al profilo di ventenne telefila, il nome che si dà ai dipendenti dalle serie televisive. Poi il fatto che io sia così appassionata e non segua soggetti universalmente amati come Supernatural o Sense8, non si spiega. Hashtag I’m born this way.

Alla domanda tipica “Qual è la tua serie preferita?”, la mia risposta va sempre alla Trinità. No, non è un’originale Netflix sulla storia del Vaticano, è il modo in cui io chiamo i tre show che mi hanno rapita in egual modo e che vanno a toccare tutti i generi che preferisco. Glee per il tema musical e quello queer, Once Upon A Time per il fiabesco, Teen Wolf per il dark fantasy.

 

 

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Quello che hanno in comune:

– Sono iniziate tutte circa nello stesso periodo, sei-sette anni fa.

– Hanno fatto il loro tempo.

Che sia giusto o sbagliato, per definizione lo show business ha la tendenza a battere il ferro finché è caldo. Questo come si traduce in termini più concreti? Quando si crea un prodotto che piace al pubblico, lo si spreme finché dell’idea originale non rimane… nulla. Glee aveva esaurito le buone idee da una stagione e mezza, quando ha chiuso bottega. Once Upon A Time è arrivata addirittura ad eliminare il novanta percento del cast principale, lasciandoci in attesa di un’ultima stagione che, per forza di cose, sarà qualcosa di completamente diverso da ciò che conosciamo.

E poi c’è Teen Wolf. Sulla carta non si distanzia affatto dalle sue compagne, anche lei sta portando la storia verso il finale tappando i buchi con una trama che ormai lascia il tempo che trova.

Eppure, tra le tante serie che ho visto degenerare dopo un certo numero di filoni narrativi, Teen Wolf mi ha ufficialmente rotto le palle. Neanche l’adorabile faccino di Dylan O’Brien è riuscito a tenermi incollata allo schermo, neanche i pettorali di Tyler Hoechlin. Ed è tutto dire.

 

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Esistono alti e bassi in ogni serie, alcune sono state addirittura marchiate con stagioni intere di idee sbagliate, che purtroppo rimarranno per sempre lì nell’archivio della produzione, a ricordarci che nessuno è perfetto.

Scavalcando qualunque razionalismo, stavolta è diverso. Ho guardato l’episodio 6×11 di Teen Wolf, quello uscito la settimana scorsa che tutti aspettavano trepidanti, e mi ha annoiata dalla prima scena all’ultima. Ed è stato come svegliarsi, rendersi conto che questa noia non è nuova. Sono riuscita ad ammettere che la serie non mi piace più, da tempo ormai. Precisamente dalla morte di Allison.

 

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Non perché quel personaggio fosse il pilastro che teneva in piedi la trama, non c’è un motivo: l’angoscia della sua eroica morte è stata l’ultima emozione che ho provato seguendo gli episodi. Nemmeno Stiles e Lydia finalmente canon dopo sei anni mi hanno fatto nulla, e io sono quella che ha urlato durante la partita di lacrosse che Stiles ha vinto e Lydia acclamato dagli spalti.

“Even somebody as burned and dead on the inside as me knows better than to underestimate the simple yet undeniable power of human love.”, questi erano i tempi d’oro!

Non saprei neanche dire perché le nuove stagioni non mi convincano, riconosco uno sforzo nel trovare sempre qualcosa di nuovo – soprattutto nel trovarlo senza andare mai a parlare di vampiri, con la scusa che i protagonisti sono licantropi. Eppure boh, niente mi coinvolge. La nuova generazione erede del branco mi sembra una brutta copia dell’originale, ed è stato divertente per due minuti, quando Scott ha tentato di imitare il discorso da Alpha di Derek “We’re brothers now.” Dopo siamo tornati all’apatia.

 

L’insistenza con cui hanno continuato a propinarci il ragionamento:

Luci spente e nebbia ovunque = horror ben riuscito!

Quello lo so perché non mi piace. E’ semplicistico. Non mi intendo di horror, perché non è un genere che amo particolarmente, però persino io so che non basta un interruttore rotto per creare tensione in una scena. Di recente sembra che la luce del sole non esista su quel set, sono stata l’unica a notarlo? Più che spaventare, chi empatizza con i personaggi come me credo che ne resti esasperato. Già io sono cieca, se vivessi in una città in cui è sempre notte sarei stata mangiata da un coyote mannaro molto tempo fa.

 

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Per non parlare dell’abuso della location scolastica. E’ un teen drama, okay, ma è ridicolo che in quella serie sia più raro trovare un teenager umano e normale che trovare una creatura sovrannaturale. Ridicolo anche il marasma di bestie che invadono la scuola – topi che scorrazzano, farfalle con istinti omicidi, lupi e coyote che entrano nel perimetro come se nulla fosse. Ad un certo punto ho iniziato a chiedermi con che coraggio i genitori di quei ragazzi non li abbiano ancora trasferiti!

 

Ah, e Derek. Il Derek che sparisce e ricompare e sparisce e ricompare e sparisce. E ora ricompare. So che questo altalenante status ha anche a che fare con gli impegni dell’attore – tifavo per lui quando voleva rubare il Bat-costume a Ben Affleck -, ma la sua assenza non ha fatto granché bene. Per di più spiegare l’assenza con “Derek è il personaggio solitario e misterioso, chissà cosa farà e quando tornerà” mi ha lasciato un che di inconcluso.

 

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Sono certa che, analizzando le ultime trovate con cui Once Upon A Time e Glee hanno tentato di tenere alti gli ascolti, conterei altrettanti e più punti deboli. E’ quello che succede quando una serie viene portata avanti più del necessario. Senza che abbia senso, senza nessuna colpa, i punti deboli di Teen Wolf mi pesano più di altri.

 

Ohhhhh! Finalmente.

Mi sono tolta un macigno. E’ stato più difficile di qualunque coming out. Mi scuso con gli amici che ancora sembrano ammaliati dalla serie e che vorrebbero fangirlare con me, soprattutto la mia amichetta Noemi. Per quanto mi riguarda, è la fine di un’era e questo mi rende molto triste. Però mi sento sollevata ora che l’ho detto apertamente.

 

Restate sintonizzati per la confessione del mio amore segreto, le canzoni di High School Musical.

Ah, mi dicono dalla regia che non è un segreto. Vabbè.

Cammino a luci spente per queste stanze

Immagini di Erisiar.

 

Take me back to the night we met.

[Lord Huron]

 

 

Cammino a luci spente per queste stanze, riconosco chi mi si avvicina dal peso del passo su questo pavimento. Mi sono nutrita della compagnia come la solitudine, dei Natali e delle crisi. Ho sopportato neanche un anno lontano da casa e, inspiegabilmente, adesso non mi dispiace così tanto lasciarla. Ho sempre avuto fiducia nel cambiamento e nell’ignoto. O forse ho solo fiducia in me, che ogni volta afferro senza problemi quella piccolezza positiva in mezzo all’uragano. Per ora, il positivo è una camera più grande e meno calda della mia.

 

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Ho avuto fretta di chiudere nelle scatole i miei ciondoli, le foto, i libri. Avevo il fiatone dovendo decidere cosa avrei salvato dall’uragano. L’unica cosa che mi preme è portare via tutto ciò che mi ha allevata. Non lascerò indietro neanche una risata, custodirò personalmente le luci dell’albero perché non si perdano per strada. Le voci che intonano citazioni di vecchie pellicole e cartoni animati, ci pitturerò le pareti della nuova casa.

Ma c’è qualcosa che non posso portare via da questo appartamento. Qualcuno. La bambina che ascoltavi lamentarsi, quella che ti ha usato per costruire un libro. Il primo libro. La bambina per cui trasformavi ogni banale dialogo in un duetto.

L’altra sera ero in salotto, con nessuno intorno, e ripensavo a lei. Mi hai insegnato a ballare, in quel salotto. Mettevi la canzone de La bella addormentata e mi facevi danzare con un libro sul capo.

Così, per ogni sera in cui ho pensato di non avere più un’anima, per ogni istante di isolamento da un mondo a cui ora appartengo un po’ meno, per la mattina che ti ha fatto sparire, quando sono scoppiata in lacrime durante il pranzo di Pasqua, per gli ultimi vent’anni in cui sei stato tutto ciò che ero io…

Quell’unica sera, quell’ultima sera, ho camminato a luci spente per queste stanze, ho preso un libro dalle pile che attendono il trasloco, ho aperto YouTube sul cellulare, ho raddrizzato schiena e nuca. E ho ballato un valzer, da sola nel mio salotto buio.

 

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Non mi sono aspettata il tuo disappunto, quando il libro mi è caduto dalla testa. Mi spaventa, perché l’istinto di cercarti sta svanendo, e forse inizio a dimenticarti. Forse non ricordo più quanti nei avevi sulle braccia, a quale episodio di Thirteen reasons why eri arrivato o che nota raggiungeva la tua voce quando ti arrabbiavi. Se dimenticassi le parole con cui mi confortavi quando qualcuno mi faceva sentire piccola, o stupida, o inadeguata, sarebbe come dimenticare la formula magica della calma.

 

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Ho messo al sicuro anche la tua scatola, quella con le tue vecchie cose. Porto tutti i ricordi che ho collezionato, porterò anche i tuoi. Ma tu non camminerai mai nel nuovo salotto e non mi inviterai mai a ballarci un valzer. Non potrò creare nuove memorie di te in quella casa, non abituerò i miei occhi a vedertici dentro come farò con tutti gli altri.

Però la scatola viene con me. E ti prometto, Cuordileone, che troverò il modo di tirarne fuori la tua risata e dipingerci i muri.

FAQ sulla poligamia

There’s nothing wrong with you.

There’s a lot wrong with the world you live in.

[Chris Colfer]

 

Ancora una volta libero i pensieri ed esce puntualmente qualcosa di polemico e arrogante.

Vabbè.

Ecco alcune domande frequenti tra le strette conoscenze di chi ha una relazione poli.

NB: la sottoscritta può parlare solo della propria esperienza, per conoscere la definizione sociale, storica e psicologica della multirelazionalità offro questo articolo di Altervista.

 

“Quindi lui lo sa che vedi altre persone?”

Ovviamente lo sa, altrimenti si chiamerebbe cornificare.

 

“Ma lo sa davvero?”

Sì.

 

“Davvero davvero?”

Eh.

 

“E gli sta bene?”

Se non fosse così non starebbe con me, no?

 

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“Perché fate questo, non vi bastate reciprocamente?”

Se parti dal presupposto di stare con una persona perché lei, in tutti i suoi aspetti e significati, ti basta, non so se riusciremo a comunicare.
Ma proviamoci lo stesso. Userò l’amicizia come esempio. Se tu – utente che ho ormai denominato “Seconda Persona Singolare” – fai amicizia con qualcuno e il vostro rapporto è forte e duraturo, diventa il cosiddetto migliore amico. Ma non è che, incontrato il bestie, smetti di socializzare e rifiuti qualunque altra possibilità di fare amicizia.

La multirelazionalità è questo, solo che di mezzo c’è la sfera sessuale o quella sentimentale o entrambe. Quello che condivido con il mio lui, i nostri rituali, i giochi e la confidenza appartengono solo a noi due, e so che non mi rivolgerò mai ad altri nel modo in cui mi rivolgo a lui. Siamo esclusivi a modo nostro, solo che l’esclusività ruota intorno a qualcosa di diverso dal sesso.

 

“E non è geloso? Tu non sei gelosa?”

Il caso ha voluto che la mia prima relazione poli sia nata con una persona per cui io provo gelosia a prescindere, possiamo essere solo amici o anche non sentirci per mesi, questa mia gelosia non se ne andrà mai. E ne ho concluso che il trucco è trovare un equilibrio tra il mio impegno e il suo. Lui si preoccupa molto di quello che può mettermi a disagio o farmi soffrire, e per esperienza so che ciò che lo preoccupa può diventare la sua ossessione, quindi non mi sento mai trascurata. Io dall’altra parte evito di usare la sua preoccupazione contro di lui.

In altre parole, la gelosia non mi autorizza a controllare la sua vita. Tante coppie monogame vivono la possessività in modo sano, ma a quanto vedo intorno a me è difficile mantenere una serenità relazionale se si parte dal presupposto “Tu sei mio quindi posso ricattarti moralmente se sono insicura, dal momento che le coppie funzionano così.” Diciamo che la mia visione di amore è cambiata nel momento in cui ho realizzato che no, non deve per forza funzionare così.

Il passo da una normale territorialità a “Chi è quella zoccola che ti ha messo mi piace??” è breve. E lo dico perché io sono stata quella ragazza. La ragazza che commenta sotto ogni post del fidanzato dove altre femmine osano scrivere. Quella che non gliela dà per una settimana se lui stringe la mano all’assistente di volo con le calze troppo trasparenti. Detesto quella ragazza, ma è utile ripensare a lei per ritrovare l’equilibrio – perché dobbiamo anche ammettere che noi donne abbiamo il gene dell’isterismo da tenere a bada.

 

 

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“Non credi che questa poligamia sia una scusa che usa lui per scoparsi chi vuole?”

Quando sento questa domanda mi sembra di aver ammesso che vivo in un harem insieme alle altre tredici mogli del mio uomo. Alcuni mi guardano esattamente come se l’avessi detto.

Proprio qui ti volevo, utente Esse Pi Esse. Risponderò con un’altra domanda: non è possibile che sia io, in caso, a sfruttare la situazione? Non sto confessando nulla, parlerò della mia troiaggine abituale solo in presenza del mio avvocato. Mi sto solo chiedendo perché la prima conclusione a cui tutti arrivano – senza conoscere lui o l’amicizia che portiamo avanti da dodici anni – sia che la colpa è sua. Che è lui il cattivo e io l’ingenua.

Trattandosi di un post di frequently asked questions, sono preparata. La risposta è: sessismo. Lui è maschio e quindi più subdolo, tutto ciò che fa nella vita è in funzione dello svuotamento dei testicoli e della sottomissione sociale della donna. E magari pure della finale di Champions League. Dio, tra le tre sarebbe la meschinità peggiore. Amore, se stai leggendo, ti prego macchiati di tutto ma non la Champions League.

 

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Ipotizziamo anche che sia io quella che sta raggirando lui per godere di una condizione vantaggiosa e comoda. Perché la libertà di andare a letto con chiunque è davvero comoda, giusto?

Se hai risposto positivamente, sei stato bocciato due volte su due, Esse Pi Esse. Voglio citare l’articolo di Altervista, che recita: dire “Io ci sarò per te” è una promessa più facile da mantenere, rispetto a “Io ci sarò per te anche qualora ci fosse qualcun altro.”

Si tratterà pure di una relazione in cui non hai vincoli sessuali, ma alla base c’è sempre la fiducia che l’altro non perderà interesse per te alla prima pupa che gli si struscia addosso. Tagliare i ponti con la tentazione – ovvero non permettergli di interagire con la pupa sopracitata -, senza entrare nel merito di giusto e sbagliato, è senz’altro la via più facile per tenersi un uomo.

Forse sembra che mi stia vantando del mio idilliaco rapporto a spese della monogamia, ma non è così. Non c’è mai nulla di idilliaco in un rapporto al di fuori delle favole: persino la nostra fiducia ha vacillato, infatti. Capita. Ne abbiamo parlato e dopo aver chiarito per la miliardesima volta cosa siamo l’uno per l’altra, non so lui ma io mi sono sentita più forte che mai.

 

“E pensi che starete così per sempre, voi due più le altre persone?”

In tutta onestà, non lo so. Può darsi.

 

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“Come può darsi? O sei una persona monogama o non lo sei, non può esserti indifferente.”

E dopo cosa mi dirai? Che non si può avere una relazione con un uomo dopo averla avuta con una donna? Devo scegliere per forza un partito, o con voi o contro di voi?

Prima di un anno fa, avevo avuto solo relazioni monogame e molto, molto serie. Una di queste – la prima – con il mio attuale fanciullo, guarda caso. All’inizio credevo che la poligamia mi avrebbe aiutata a scrollarmi di dosso l’ansia di una relazione troppo seria, poi mi sono ricordata che si stava parlando di una relazione con lui. Con lui è una relazione seria anche quando non è una relazione, perché a prescindere dalle regole noi due non cambiamo mai. Ma non voglio divagare su qualcosa di cui ho già ampiamente scritto.

Se domani mi chiedesse di rinunciare a vedere altre persone forse esiterei, ma alla resa dei conti non vorrei rinunciare a lui per andare a letto con chi voglio.

 

Non risponderò al tuo conseguente “Ah! Ma quindi è solo a sua discrezione quello che siete, decide tutto lui, quindi è colpa sua.” Perché ricadremmo di nuovo nel sessismo.

 

Scherzi a parte, spero sinceramente di non suonare polemica o arrogante. Non ho mai voluto imporre il mio stile di vita a nessuno. Ma ho la forte impressione che gli altri vogliano impormi il loro, quando mi chiedono “Come va con il ragazzo?” e mi guardano come sperando che la risposta sia “Bene, siamo finalmente diventati una coppia vera.”

Inoltre spero che i monogami non si sentano punti nel personale con i miei discorsi. Ogni rapporto avrà i suoi pro come i suoi contro, il rapporto che sto coltivando adesso ne ha parecchi di entrambi, ed entrambi prescindono da cosa faccio e chi sono al di fuori della coppia.

 

La sintesi è, caro amico Esse Pi Esse, che io sono felice. Lui è felice, almeno per quello che sembra a me. Lo siamo da più di un anno se non mi sbaglio, un motivo ci sarà. Se ancora non ti è chiara questa cosa puoi rileggere il post da capo. E poi magari possiamo guardare insieme qualche episodio di You me her, un rewatch a me fa sempre piacere.

 

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Pirati dei Caraibi: tiriamo le somme

Dopo aver visto La vendetta di Salazar, sono corsa a sentire che ne pensava VictorLaszlo88. La sua recensione mi ha fatto venire voglia di rispondere, quindi vi dirò la mia in un palloso e lunghissimo intervento. Ma non sono brava come lui a dare un parere senza fare spoiler, quindi siete stati avvertiti.

Il mio bisogno di evasione dal mondo ha sempre trovato sazietà nelle leggende dei pirati, e tutto è nato da Pirati dei Caraibi. Per una con una fervida immaginazione quale sono io, è come una vita parallela. Romanzi, pellicole, i miei stessi racconti, attraverso tutte quelle storie ho navigato sulla Flame Feather, mi sono tolta il cappello di fronte all’impiccagione di Charles Vane, sono stata maledetta dal forziere di Cortez e ho assaggiato il sapore della pelle di Anne Bonny.

Ecco, neanche venti righe e già parto in quarta con il sentimentalismo. Ora mi ricompongo.

 

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Sceneggiatura e regia

Nella sua recensione, Laszlo ci informa che lo sceneggiatore è rimasto lo stesso per tutta la saga, Terry Rossio. Eppure su Wikipedia dicono diversamente: il quinto film sarebbe stato scritto da Jeff Nathanson. So che non è da prendere per oro tutto quello che scrivono su Wikipedia, ma onestamente voglio sperare in questo cambiamento. Perché il soggetto di Terry Rossio e Ted Elliot mi ha dato frasi come…

“Non è solo una chiglia, uno scafo con il ponte e le vele – sì, una nave è fatta così. Ma ciò che una nave è… ciò che la Perla Nera è in realtà, è libertà.”

“Belli erano i tempi in cui il dominio del mare non veniva da patti stretti con inquietanti creature, ma solo dal sudore della fronte e dalla forza della schiena di un uomo.”

 

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Il copione de La vendetta di Salazar si presenta con una prospettiva più minimalista, esprime una concezione della sceneggiatura completamente diversa, per questo mi è facile immaginare che abbiano sostituito la penna. Troviamo frasi a tratti superflue, certe battute forzate che fanno sembrare la pellicola la parodia di se stessa.

Pirati dei Caraibi è, tra le altre cose, un soggetto divertente, ma non tanto per le barzellette quanto per situazioni improbabili che si legavano perfettamente – lo ripeto, perfettamente – con la trama principale. Non è ciò che viene detto, ma ciò che viene fatto. Agli sceneggiatori era affidato il compito di far sembrare i pirati affascinanti e strafighi, al regista non rimaneva che metterci in mezzo la ruota di un mulino per rendere più simpatici i duelli. Era questo a funzionare, questo io adoravo: impacci e sgambetti che volevano smontare la facciata epica dei pirati, piccoli colpi di scena con i giusti tempi comici. Mi hanno dato l’illusione di essere rimasti fedeli a questo modello, quando Jack è entrato in scena dormendo in una cassaforte con una donna sposata. Poi è tutto degenerato con un’intera banca che viene trascinata da una carrozza. Bah.

Già in Oltre i confini del mare il modello inizia a mancare, e noi ci accontentiamo di un Jack Sparrow che salta nel vuoto un paio di volte e ruba un dolcetto al sovrano britannico. E tocchiamo il fondo con il quinto film, dove i duelli sono misere inquadrature di colpi di spada e una parentesi inutile sulla polena di prua che prende vita. Sembrano aver concluso all’unanimità che al pubblico basta la storica soundtrack e una fuga saltellante in cui Sparrow si salva per un pelo – portandosi dietro una banca, appunto. Per il resto, non c’è un vero spessore nelle scene “d’azione”.

Citando VictorLaszlo, probabilmente il tutto è passato in secondo piano per l’attenzione data alla grafica. La polena sarà stata inutile, ma era visibilmente bellissima, stessa cosa vale per la scena della divisione delle acque. Sugli effetti siamo sempre 10 e lode, questo non è cambiato.

 

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Salazar

Ora, i personaggi. Capitan Salazar non ha deluso soltanto Victor, anche io mi aspettavo molto da questo villain. Dal punto di vista estetico è eccezionale, ma semplicemente non basta. Se c’è una cosa in cui sono sempre stati bravi gli autori della saga è proprio creare un qualcosa in più nei cattivi, in modo che possano essere capiti un pochino dallo spettatore. Se io vivessi mangiando Philadelphia senza trovarne soddisfazione – come Barbossa con le mele -, sarei anche più cattiva di lui! Poi mi incazzo se la gente mi dà buca per un cinema, mi figuro se avessi solo un giorno libero ogni decade come Davy Jones.

Con quei personaggi si poteva empatizzare, invece da Barbanera sembra sia stato innalzato un muro invalicabile tra noi e gli antagonisti: non vi è più spazio per creare una psicologia credibile. Salazar viene maledetto, come viene maledetta metà della popolazione mondiale in quella realtà del XVIII secolo, ma conosciamo esclusivamente questo di lui. Infatti, dalla presentazione epica che avevano costruito nei trailer, mi aspettavo che lo facessero sopravvivere per il sesto film, quantomeno per darci modo di andare oltre la superficie.

 

 

La nuova coppietta

Con Henry e Karina abbiamo ottenuto risultati migliori della precedente coppia, ovvero l’emissario palestrato e la sirena, i quali sono usciti esattamente come arrivati: senza uno scopo.

Dacché mondo è mondo, agli ultimi arrivati si deve dare un tratto caratteristico, qualcosa per essere ricordati. Karina è una donna di scienza, e questo l’ho apprezzato, anche se alla fine del film le sue conoscenze vengono usate come una sorta di nuovo (nuovo?) modo per navigare: “Non abbiamo bisogno della mappa, seguiremo le stelle”, come se fosse possibile seguirle senza conoscerle. Ancora: sceneggiatura scialba.

Il tratto caratteristico di Henry a mio parere è un po’ – permettetemi il termine – paraculo. A conti fatti non è altro che il fanciullo onesto e coraggioso – ovvero Will Turner, ma perché è così? Beh, ovvio, perché è suo figlio! E potrei pure farmela andare bene questa spiegazione, se almeno la questione fosse stata gestita meglio.

Mi spiego: la Disney ha una lunga tradizione di sequel che sfruttano la progenie dei protagonisti per crearsi nuove trame. E devo dire che mi sono emozionata di più con la reunion di Peter Pan e Wendy, in Ritorno all’Isola Che Non C’è. Jack non è mai stato un tipo sentimentale, okay, ma una mini parentesi sui tempi andati io l’avrei messa. Fosse pure nel più cliché dei cliché: di notte, dopo una battaglia, guardando le stelle. Al posto dei banalissimi consigli su come flirtare con una signora, per esempio. Cribbio, mi sono sorbita Sparrow che sbava ricordando le inesistenti tette della Swann, almeno avrebbe potuto accennare un “Ho salvato tuo padre nel mio primo e ultimo quarto d’ora di umanità, quindi senza di me non saresti nato.”

 

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Perché per me quello è stato uno dei momenti più toccanti della saga, nonché un colpo di scena che diventa il motore del quinto film. Scene del genere sono il motivo per cui ho apprezzato molto più i momenti di serietà, quelli di lacrime, piuttosto che i comici.

 

 

Hector Barbossa

Parlando di lacrime, ecco. Qui mi trovo in disaccordo con Victor, a mio parere Barbossa è l’unico che si salva – infelice scelta di parole, sentite il mio cuore che si spezza? L’ho trovato molto coerente con quello che è sempre stato. Nell’era di decadenza per la pirateria, lui riesce a trionfare, si crea la sua flotta, trova il modo di essere un pirata libero e potente pur concedendosi i lussi che apprezzava quando era in marina. Tutto l’ambaradan di dolcetti, quartetto di violini e teschi d’oro, era così da Barbossa! E soprattutto finge di sottomettersi a Salazar, ma solo per raggiungere la Perla Nera e avere l’occasione di combatterlo. Sarebbe stato facile e indolore eseguire gli ordini, ma Hector non segue gli ordini di nessuno.

 

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L’ho amato dalla prima scena per ogni lato di quello che è, il cattivo e l’eroe, la canaglia e lo stratega, il fuorilegge con una classe impareggiabile.

E proprio lui dovevano togliermi.

 

“Cosa sono io per te?”

“Un tesoro.”

 

Voglio uccidermi.

 

 

I coniugi Turner

Arriviamo alla coppia storica della saga. Seppure io covi il mio odio per Elizabeth Swann da più di dieci anni, senza di lei e il suo uomo la trama cade a pezzi. Stanno in scena per cinque minuti in tutto e troppe falle lasciano dietro. Tipo: perché nessuno dei due va a cercare il figlio che si mette in pericolo di sua sponte? Perché Will non va per primo a cercare il tridente, visto che – anche a chiamarla maledizione – ha dentro di sé tutto il potere del mare?

E soprattutto: perché Will ha quello scoglio in faccia? L’Olandese Volante fa questo all’equipaggio che si rifiuta di traghettare le anime di chi muore in mare, quindi io mi chiedo cosa diavolo abbia fatto Turner per vent’anni se non ha adempiuto al suo ruolo, non ha cercato un modo per liberarsi dalla maledizione né ha aiutato Henry. Dice due battute in croce – di cui una è “Figlio!” – e sembra costantemente strafatto. Forse è con l’oppio che ha ammazzato il tempo, perché da eroe cocciuto e temerario è diventato un rincoglionito.

 

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Jack Sparrow

Ho lasciato per ultima la più grande delusione. Al personaggio di Jack devo molto, è stato un grande amore dell’infanzia e un’altrettanto grande ispirazione, perché ho iniziato a scrivere fantasticando sulle sue avventure – le mie prime fanfiction, in altre parole.

E’ sempre stato un personaggio spassoso quanto indispensabile per gli eventi, un protagonista parallelo senza cui i due “buoni” avrebbero passato l’esistenza a guardarsi da lontano. Il capitano Sparrow riempie le giornate, nel bene e nel male ti fa vivere a pieno, ti mette in situazioni in cui neanche tu sai fin dove ti spingeresti, per ottenere ciò che vuoi.

 

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Tutto questo, nel quinto film scompare. Scompare la grinta, la sagace e imprevedibile visione del mondo, quel ghigno luccicante che dà l’impressione che sappia dal principio come finirà la storia. Qui è solo un depresso pirata in rovina, che viene catapultato in una nuova avventura che non gli lascia nessun ruolo. Henry si imbarca per trovarlo, perché convinto che sia l’unico a poter spezzare la maledizione di Will, ma in effetti Jack non fa assolutamente nulla. Viene inquadrato, fa la sua battuta sconcia e poi si torna al vero film.

 

 

E quindi?

E quindi è andata così. Ero emozionata per questo quinto capitolo, il che non ha aiutato. Ma col senno di poi, sono dovuta scendere a patti col fatto che la vera saga è finita molto tempo fa, e con lei la mia infanzia. L’avrebbero chiusa alla grande con Ai confini del mondo, lasciando un sentore di eterna vita e avventura per tutti i protagonisti.

E soprattutto, anche se dirlo mi fa male su troppi fronti, gli attori per primi avrebbero dovuto dire no. Perché sono tutti così visibilmente stanchi – prendendo di nuovo in prestito le parole di Lazslo. Venite a dirmi che sono vecchi, ma non sono mica morti! E, cosa più importante, non sono finiti. Geoffrey Rush è un mostro di attore, ma ha bisogno del ruolo giusto, e portarsi dietro il fantasma di un personaggio che ha reso unico dieci anni fa non può fargli bene.

Stessa cosa, ahimè, vale per Johnny Depp. Sento molti dire che è arrivato alla frutta, che dopo Sparrow ogni ruolo datogli è stato una sua caricatura, ma non sono d’accordo. La maggioranza dei film per cui l’ho apprezzato sono venuti prima di Pirati dei Caraibi, è vero, ma per dirne una, con Sweeney Todd e Black Mass si è dimostrato bravo nelle vesti del cattivo. Ed è per questo che sono curiosa di vederlo nel sequel di Animali fantastici e dove trovarli. Ci sono altre facce di lui, oltre al furbo buffone, che possono essere sfruttate.

Ma in quanto a Jack Sparrow, è ora di appendere al chiodo il suo amato cappello a tre punte. Continuerà ad essere l’inestimabile ispirazione per i racconti che scrivo, quella sulla Perla Nera continuerà ad essere il mio ideale di vita. Ma come ho accettato la cancellazione di Black Sails, l’epilogo de La vera storia del pirata Long John Silver, come un giorno accetterò di scrivere la parola fine sui fogli in cui ho fatto nascere Red Crow, accetterò anche questo.

Anche se facessero un sesto film – e la scena post credits lo lascia intendere -, l’era di Pirati dei Caraibi è bella che finita. E immagino sia giusto così.

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Ora, se non vi spiace, vado a piangere in un angolo.

La melensa storia del mio primo bacio

Immagini di Chiara Bautista

He’s more myself than I am.

Whatever our souls are made of, his and mine are the same.

[Emily Brontë]

Questa è melensamelensamelensa. Io vi ho avvertito.

Allora. Mi sono sempre rifiutata di considerare il primo bacio quello che diedi al fighetto del mio stabilimento, mi usava solo per far ingelosire una delle viperette che stavano sempre a bordo piscina per non bagnarsi i capelli. Poco male, intanto quella tizia non avrebbe avuto bisogno del pezzo sopra del costume se non anni dopo di me: ergo, ho vinto io. Mi vendicai anche del fighetto, flirtando con suo cugino – molto più carino – come una zoccoletta ad oc. Neanche quello con lui fu il primo bacio, era solo la prova generale.

Avevo dieci o undici anni, quando decisi chi sarebbe stato il primo. Nella mia testa, quel bambino era il solitario abitante di un giardino, un giardino che fingevamo di conoscere solo noi. Ci incontravamo lì una volta l’anno. Era tutto così fantasticamente malsano che avevo anche deciso come approcciare la cosa: gli avrei chiesto se avesse mai baciato una ragazza, come nel film Papà, ho trovato un amico, e se avesse voglia di far pratica con me. Non ricordo neanche se gli ho mai parlato del mio piano.

Lui non si fece vedere, quell’anno. Sua sorella, che ai giardini lo accompagnava ogni volta, venne a trovarmi per recapitare una sua lettera. Cosa non darei per averla conservata, scritta al computer e firmata a mano. Si scusava per non essere riuscito a presentarsi al nostro appuntamento – il primo di tanti bidoni che mi avrebbe propinato, il bastardo.

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Frequentavo le medie quando lo incontrai di nuovo. Era cresciuto bene, era cresciuto troppo, la prima di tante occasioni in cui mi avrebbe fatto sentire una bambina vicino ad un gigante. Bastardo.

Rivedendolo dopo tutto quel tempo, mi convinsi ad abbandonare il mio piano. Ormai aveva ben tredici anni, troppo maturo per una scena alla Papà, ho trovato un amico. In più il suo cambiamento mi intimidiva. Mi sentivo come se mi avesse lasciata indietro, come se io non fossi cresciuta di un giorno. Ma probabilmente è stato solo il pugno nello stomaco con cui la pubertà mi ha colpito, quando me lo sono trovato davanti. Chiunque si sia inventato la storia delle farfalle nella pancia, voleva far apparire le fanciulle più delicate di quanto non siano.

E’ successo, comunque. Ho cambiato approccio, ispirandomi a sceneggiati di più alto target – almeno alla classe di Tre metri sopra il cielo ci arrivavo. E ho dovuto aspettare, però è successo. Come da piccoli ci nascondevamo nel giardino segreto, abbiamo trovato altri posti solo nostri, come la spiaggia dove l’ho baciato la prima volta. Ci siamo tornati la scorsa estate e mi ha confessato quanto fosse liberatorio stare lì senza lo sguardo inquisitorio di mia madre a riva.

Ho buttato giù questo ammasso di canditi e ricordi un paio di mesi fa. La città era sotto zero, ci siamo presi due pizze per strada e messi a mangiare sotto la serranda di un negozio chiuso. E qualcosa in quel quadretto – io, la mia gonna di lana sul marciapiede, la pizza – mi ha fatto pensare alla bambina che progettava come rubare un bacio per gioco al ragazzo che mi sedeva accanto. E mi sono chiesta perché lei avesse più voglia di fare un passo tanto importante con un tipo qualsiasi che incontrava una volta l’anno, piuttosto che con qualcuno che frequentava regolarmente. Qualcuno che conosceva meglio. Mi sono chiesta perché quella bambina si fidasse più di lui che di chiunque altro.

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Poi abbiamo iniziato a parlare. Di famiglia, dei ristoranti che chiudono presto, di sesso, delle nostre discutibili scelte su come passare una serata. E, come succede spesso, siamo finiti a parlare dei motivi per cui non ci definiamo una coppia normale. E, come succede spesso, il suo tono si è caricato di rimorso e i suoi discorsi hanno rivoltato l’universo. Ad un certo punto ho perso il filo e giuro che non so dove la nostra strampalata relazione è magicamente diventata una sua colpa, di cui io sono sempre stata inerme ostaggio. Ero seduta a divorare una pizza con il mio più caro amico e lui ha pensato che ne fossi infelice, che mi stesse costringendo ad essere lì.

Per zittirlo, ho preferito non usare parole inutili che tanto conosceva già. Gli ho allungato la mia ultima fetta e lui mi ha rubato un bacio.

Allora ho capito perché mi era tornata in mente la mia infanzia. Perché ci eravamo rintanati di nuovo nel nostro giardino, il piccolo angolo privato in cui possiamo creare le nostre regole e decidere che non fa troppo freddo per mangiare seduti in strada, il giardino dove ci diciamo cose che non ripeteremmo mai. Lo faccio da così tanto tempo che non ricordo neanche chi fossi prima di scoprire il giardino. Parlare con lui mi viene naturale quanto entrare in camera mia appena torno a casa, ridere quando qualcosa mi diverte, quanto scrivere.

Mi chiamano ancora esageratamente romantica, sebbene mi sia scrollata di dosso un bel po’ dei canditi di cui ero ricoperta da piccola. Succede a tutti, no? Più adulti, meno ingenui. Alla luce di questo, è buffo pensare che a dieci anni avevo già deciso di chi mi sarei innamorata per la prima volta. Chi avrebbe fatto nascere e infrangere la favola che vedevo nei film. Da chi sarei andata se avessi avuto bisogno di buttare fuori il mondo e rintanarmi in un giardino segreto. Senza etichette, senza regole da rispettare. Un giardino e nient’altro.

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Lo sporco segreto di Londra

“Fammi solo tornare a Londra. Ho bisogno di vederla, respirarla, sentire ogni battito del suo cuore pulsante.”

[Sherlock]

Ricordo l’autunno 2015 come il periodo in cui ogni parola detta da mio fratello voleva convincermi ad aprire un blog. E’ stato anche il periodo in cui mi sono trasferita in Inghilterra e lui pensava che potessi dispensare qualche consiglio utile per tutti i cervelli in fuga come me – [inserire nota di sarcasmo qui].

Non ho dato ascolto a quell’idea – anzi, mi sono appassionatamente opposta -, per un motivo banale: non avevo molto da dire. Esistono già tantissimi siti dove elemosinare informazioni sulla vita londinese, di cui io per prima ho fatto tesoro. Quindi il mio blog sarebbe nato e deceduto con un “Cliccate su questo link.” Che tristezza.

Il punto è che, se io sono riuscita a trovare la mia nuova abitazione, del cibo ricco di zuccheri e grassi che mi desse conforto, e a capire da che parte guardare prima di attraversare, può farlo letteralmente chiunque. Quindi penso che il segreto della sopravvivenza a Londra sia che non c’è nessun segreto. Citando Scrubs, “Lo sporco segreto del sesso di Londra è che non è poi così sporco.” Oyster card, app con navigatore e si va all’avventura!

Al che la domanda sorge spontanea: perché sto scrivendo questo post, se non c’è nulla da aggiungere?

Risposta: una cara amica si trasferirà a Londra la prossima settimana e voglio sforzarmi di partorire qualche cosuccia in più, anche se probabilmente sa già tutto.

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Non esistono consigli che possano salvarti da Londra, ma di Londra conosco tutte quelle piccole cose che possono aiutarti – tu, utente x a cui mi rivolgo perché la seconda persona plurale è strutturalmente pesante -, trasferendoti all’estero. Se ti stai trasferendo a Bangkok, vedrò di fare da cavia per partorire una lista di consigli apposita. Però prima allungami i soldi per il viaggio.

 

Tip n. 1 – Non fare il coraggioso

Andare via di casa fa paura, andare lontano e contro l’ignoto fa paura. C’è chi si raggomitola nel letto invocando mamma e papà anche quando va a vivere al pianerottolo sotto il loro appartamento.

Quando ti chiedono come stai, non fingere di stare in paradiso solo per non sembrare una mammoletta. O peggio, per farti invidiare. Stai sicuramente vivendo un’esperienza eccitante, ma sentirsi spaesati è normale.

Per quanto mi riguarda, non si è trattato di uno sporadico attacco di panico del primo periodo: sono stati tanti piccoli momenti di sconforto che mi hanno accompagnata dall’inizio alla fine del mio viaggio. E’ stato lì che ho imparato quanto vicina una persona ti possa stare quando lo chiedi, semplicemente mandando un messaggio. Senza, non so come avrei fatto.

 

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Tip n. 2 – La fase turista

So che fa fico essere in sintonia con l’aria londinese, i semafori londinesi e i barboni londinesi sin dai tempi di quella gita in prima liceo. Ma anche se ami quello che conosci di Londra, anche se ti sei girato i negozi di Oxford Circus dieci volte, non ti sentirai a casa dal primo giorno.

L’ho imparato a mie spese: prima o poi l’atmosfera romantica che si respira dalle foto di Tumblr svanisce, magari quando ti chiederanno indicazioni in una zona che non conosci o quando un’auto sfreccerà sul margine della strada, centrando una pozzanghera che ti inonderà. Quindi tanto vale imparare a conoscere Londra da zero, invece che darla per scontata.

La dura realtà è che, se non sei ancora membro produttivo della comunità – con la fila in banca, le bollette ecc. – sei un turista. Visitare una città non è come viverci, ma è un buon primo passo e penso sia una fase che vale la pena godersi.

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Tip n. 3 – Naso all’insù

C’è così tanta bellezza a Londra, io mi esaltavo anche per i comignoli sui tetti di pietra. Alla peggio, se sarai triste, lo sarai in mezzo allo splendore di una città che di splendente ha molto – basta saperlo vedere. Quando ho discusso per la prima volta con la mia coinquilina, mi sono nascosta alla National Gallery.

 

Tip n. 4 – Le lavagne in metro

Le usano per scrivere annunci di eventuali malfunzionamenti delle linee, ma le vere perle sono i Thought of the day che scrivono quando non c’è nessun problema da segnalare – beati inglesi che non hanno problemi con i mezzi. Salvano le giornate, quei commenti scemi.

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Tip n. 5 – La prima fila sull’autobus

Quando i miei giri in città non dovevano essere contenuti in orari particolari, mi sono concessa tanti – tanti – viaggi in autobus. Ci mettono una vita ad arrivare a destinazione, ma quando riesci a conquistare il posto davanti al piano superiore, non vuoi mai che finisca. Se non soffri di mal d’autobus, ovvio.

 

Tip n. 6 – Il cibo

Non alzate gli occhi al cielo, italiani buongustai – vi vedo! E’ assodato che da noi si mangi meglio. Ma ti assicuro – utente x in prima persona singolare – che quando programmi di restare in Inghilterra interi mesi, lo spirito di sopravvivenza ti fa andare avanti anche senza la carbonara di nonna. E poi quella puoi fartela spedire.

Non ho conosciuto neanche un italiano che non si facesse mandare le conserve e il sugo fatti in casa dalla terra natia. Ma ti dico un segreto: in Inghilterra esiste la pasta De Cecco! E la Kinder, la Philadelphia Kraft! Ho quasi urlato in mezzo alle corsie di Sainsbury, quando l’ho scoperto.

A differenza di quel che si pensa e che ho pensato io, non ti stai trasferendo in Burundi. I supermercati sono abbastanza forniti di prodotti uguali o simili a quelli italiani. Si sopravvive.

 

Tip n. 6 1/2 – La colazione

Ha bisogno di una parentesi a sé. Sciorinami tutti i nomi dei tuoi baretti e cornettari di fiducia, fatto sta che la cultura della “colazione fuori” noi non ce l’abbiamo. Noi beviamo caffè ristretti, un bombolone al volo se abbiamo due minuti in più, ma finisce lì. Ma se non ti fa schifo il bibitone di Starbucks che lì chiamano caffè, può diventare una piacevole mattinata quella a leggere sprofondando nella poltrona di una sala, con tazza di cartone e porridge / muffin / pane e marmellata al seguito. Poi se stai scrivendo una fanfiction su Sherlock Holmes come me ai tempi, organizzare tutto il quadretto sopracitato in un bar di Baker Street può dare una buona ispirazione.

 

Tip n. 7 – Respira

Non è vero neanche per un [inserire censura qui] che a Londra piove sempre, in compenso l’aria sa di umido e onestamente a me piace parecchio. Uscivo di casa sempre prendendo un profondo respiro rinvigorente.

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Tip n. 8 – Calma

Cerca di non alterarti se la gente del posto ha atteggiamenti, priorità e debolezze diversi dai tuoi. Non è così evidente ad un primo impatto, ma stare a stretto contatto con i londinesi ti farà conoscere sicuramente la loro indole… come dirlo in modo delicato? Da scopa nel culo.

L’amica in via di trasferimento conosce questa storiella, ma la racconto lo stesso: una volta una cliente del ristorante si è lamentata con il mio capo perché, dopo essere stata in bagno, mi ero lavata le mani in cucina e non lì davanti a lei. Dunque non mi aveva vista e pensava che servissi il cibo ai tavoli con le mani sporche. Quel giorno sono stata congedata prima della fine del turno, allibita dalla facilità con cui un dipendente venisse mandato alla gogna.

Gli inglesi sono quello che sono, alla fine si impara a conviverci. E lavorando nei ristoranti, come la maggioranza dei giovani stranieri, si impara soprattutto ad ingoiare rospi.

La regola generale è che in Inghilterra tutto deve sembrare perfetto anche quando non lo è. Tutto deve essere sotto controllo, non importa quanto la situazione sia disperata. Sembra stressante, ma immagino che questo state of mind li aiuti a gestire in modo ordinato ed efficiente le emergenze come l’attentato di Westminster dell’altro giorno. Ci sono sempre due facce in una medaglia, no?

Tip n. 9 – Le visite

Costringi amici e parenti a venirti a trovare. Anche se devi fare leva su ignobili ricatti morali – tipo ricordare a tuo padre di quando l’hai aiutato a riprogrammare i canali sul decoder.

Una delle parti migliori del rendere un posto nuovo casa mia, è stata farla conoscere alle persone che mi facevano visita. E’ stato come fondere due mondi in uno, il più delle volte negli aspetti migliori di entrambi. Per sopravvivere agli innumerevoli cambiamenti di un’avventura quale è Londra, può essere utile.

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Tip n. 10 – Martin Freeman

Se Martin Freeman si presenta sul tuo posto di lavoro, torna al punto 7: ricordati di respirare. Se non ci riesci, riprova in una busta di carta.

Ciao Noemi, buon viaggio, aspetto il resoconto dei tuoi piccoli metodi di sopravvivenza. Sono tanto felice che finalmente questa nuova avventura cominci, aspettavi da tanto. ♥

La Bella e la Bestia – La recensione non richiesta

Scrivere di cinema mi fa sentire il fiato del mio fratellone regista proprio qui dietro il collo. Voglio provare a partorire qualcosa di sensato, perché poche cose sento mie quanto la Disney e i suoi classici.

Credo che ogni bambina degli anni ’90 sia cresciuta identificandosi con una principessa disneyana e io ho trovato me stessa in Belle – offendendo gli occasionali fanciulli che sceglievo come miei principi, immagino. Quindi ero curiosa di questo live action.

 

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Sono uscita dalla sala con un turbine di considerazioni in testa e ho bisogno di buttarle giù. Ma non posso contenere gli spoiler per farlo, quindi se non avete visto La Bella e la Bestia (2017) vi conviene chiudere tutto e andare a vederlo. E poi tornare qui a leggere, ovviamente.

 

Lo definirei il film della fusione. Il punto di forza è allo stesso tempo il punto debole: tante realtà diverse tra loro che cercano di coesistere. Conoscendo la Disney, la fusione deriva dal bisogno di accontentare un target quanto più ampio possibile, ma quando si parte da una pellicola che esiste già la sfida è più ardua. Perché non hanno dovuto soltanto misurarsi con la loro reputazione – “Vado a vedere questo film perché la Disney sforna (quasi) sempre capolavori” -, ma anche con il loro stesso film!

Per mantenere un minimo di ordine mentale, credo di dover analizzare il live action tramite tutte le sue realtà.

 

Prima e più importante, la realtà del classico datato 1991. La pellicola è stata costruita prendendo spunto da quella originale e questo ha suscitato pareri contrastanti. Insomma, tutto bello e romantico, ma che senso ha pagare per vedere una copia? Abbiamo tutti la cassetta di La Bella e la Bestia a casa, no?

La produzione non ha replicato a questo feedback negativo, piuttosto ha lasciato parlare il cast. Uscivano i trailer, con scene palesemente – e volutamente – identiche a quelle del film d’animazione, e poi gli attori rilasciavano un’intervista o si facevano scappare una parola su ciò che ci sarebbe stato di particolare nel live action. Infatti la fedeltà al vecchio film rappresenterà circa un 50%.

La realtà del ’91 è anche la realtà nostalgica, per noi che eravamo bambini in quegli anni. E io ho percepito tantissimo lo sforzo della produzione per colpire ed emozionare noi ventenni. Il picco di questo sforzo lo troviamo nella performance di Stia con noi, si fanno il culo per renderlo spettacolare e io l’impegno lo apprezzo. Ma non sarà mai come l’originale. Sia per una questione di grafica animata che per il confronto con una canzone che tutti abbiamo cantato da piccoli – nel caso della mia famiglia, che cantiamo ancora adesso. Questo film è come la nuova fidanzata che viene paragonata a quella che ci ha mollato, che irrimediabilmente idealizziamo e ricordiamo come perfetta.

 

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Poi una realtà che mi è piaciuta parecchio, quella storica. I riferimenti al XVIII secolo si intrecciano con l’astratta idea insita nella favola (“C’era una volta in un paese lontano lontano…”). Hanno tenuto l’abito di Belle, l’abito iconico color oro, ma per il resto i costumi sono stati adattati alla moda del Roccocò francese, quindi merletti, cipria bianca e parrucconi. Perché in effetti, molti vestiti delle principesse Disney sono storicamente inesatti, pensati per accostarsi più all’aria fiabesca che al setting storico. Il che rende questo film più adulto.

Gaston che ha combattuto in guerra. Parigi durante gli anni della peste. Il problema dell’analfabetismo che la gente di paese neanche si pone – che, anzi, evita accuratamente di affrontare. La coreografia del famoso ballo ricreato secondo le danze di quei tempi. Bello, bello, bello.

 

La realtà comica è quella che ho gradito di meno. Per spezzare il tono sdolcinato e serio di certe scene, ci hanno ficcato tempi comici che ci stanno come i cavoli a merenda. La palla di neve gigante in faccia a Belle mi ha lasciata di stucco. E’ come se Ercole desse un pugno nei gioielli a Filottete nel bel mezzo dell’addestramento.

Forse nelle canzoni ha funzionato meglio, perché la musica familiare del film originale ha il potere di metterci tutti a nostro agio e ogni cosa sembra incastrarsi come dovrebbe. LeTont che si alza la camicia per far vedere il segno del morso di Gaston, pur essendo una parentesi random, è un esempio di questo.

 

La quarta realtà è quella attuale. Quella che vuole calzare a noi giovani fanatici come un nuovo vestito su misura.

La colonna sonora di Ariana Grande e John Legend è stata pensata per questo, il cast è stato pensato per questo. Ian McKellen, Emma Thompson e la stessa Emma Watson – tutte scelte strategiche.

Aprirei una parentesi sulla Watson, qui. Vero è che non l’ho mai vista spiccare di particolare bravura nella sua carriera in Harry Potter, ma in questo film in particolare non mi è piaciuta. Bellissima, bella voce, ma non mi ha convinta nell’espressività. Sembra troppo concentrata a fare la docile e delicata principessa, tanto che i suoi occhi non mi hanno mai dato una vera emozione potente. Io impazzirei nel vedere utensili da cucina che ballano e cantano per allietare la cena – anzi, rettifico, sono impazzita a vederlo -, invece lei sorride e basta. L’ho trovata per lo più passiva alle cose incredibili che scopre, ed è deludente per essere un personaggio che sogna l’avventura più di ogni altra cosa.

 

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Questo punto negativo va a braccetto con la presentazione della Bestia. Come personaggio funziona, mi piace adesso come quando ero bambina. Però la voce da bamboccione che assegnano a dei comuni Liam Hemsworth e Ashton Kutcher mi ha fatto venire il latte alle ginocchia. Quindi doppiaggio bocciato. E i suoi muscoli, santo cielo: che senso hanno avuto i muscoli? La Bestia non deve essere attraente, il senso della storia è proprio quello!

 

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L’attualità porta ad un’analisi approfondita dei personaggi, per venire in contro ad un clima più realistico. Maurice porta Belle in un paesino sperduto per tenerla al sicuro dalla peste che ha colpito Parigi, la Bestia è stata educata dal padre per essere un principe freddo e spietato. Ah, e il personale del castello che ritrova parenti e cari che li credevano dispersi perché sono stati trasformati in oggetti – quello è stato adorabile, oltre ad aver riempito un non indifferente buco di trama.

Non stupirò nessuno dicendolo, ma il personaggio che ho apprezzato di più nella sua attualità è stato LeTont. E’ stato strappato dal ruolo di sidekick dell’antagonista – posticino che condivideva con Pena e Panico, Spugna, Genoveffa e Anastasia. Lo hanno reso una persona reale. E io non ho potuto far altro che amare ogni dettaglio di lui. Ho amato i vestiti da dandy, lo sguardo altezzoso contornato dalla eye pencil, la moralità che viene fuori quando Gaston supera il limite. Perché LeTont non è un cattivo ragazzo, è solo innamorato del cattivo ragazzo. E quale spettatrice può dire di non capirlo almeno un po’?

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Momento engagé tra 3… 2…

Ora parliamo della causa che mi sta più a cuore. La Disney è celebre per la sua originalità, in ogni singolo film punta su ciò di cui non ha mai parlato, ogni trama ha un mondo inedito. Viene spontaneo pensare che prima o poi vogliano anche cimentarsi nel mondo LGBT+, con cui potrebbero farci emozionare e divertire tantissimo. Ma ogni tema deve essere sempre filtrato per il target più giovane. E dacché mondo è mondo, il più grande problema dei bambini sono i loro genitori.

L’intrattenimento infantile si sta introducendo in punta di piedi nell’argomento omosessualità, per incorrere il meno possibile nelle critiche di bigotte teste di cazzo – scusate il francesismo. Sono convinta che, fosse dipeso dalla produzione, avrebbero piazzato un crescendo di orchestra sotto un bacio mozzafiato tra LeTont e un principe a caso. Ma poi avrebbero rischiato di giocarsi metà del pubblico – e quindi degli incassi.

 

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La società è quella che è e ci siamo accontentati di mossette teatrali, occhiate di gelosia alle tre galline che fangirlano sul suo uomo, invadente contatto fisico… e il ballo finale. Anche se è stato un frame, uno solo, c’è stato. Un ragazzo che danza con un altro ragazzo. E già questo è stupendo, per quanto mi riguarda, perché sono progressi.

La Disney ha usato un’ambientazione e un personaggio con cui il pubblico era già familiare per introdurre una novità importante. E l’ha fatto in un modo abbastanza discreto e quasi impercettibile, per sentire la temperatura dell’acqua. Per assicurarsi che il mondo sia pronto a vederla affrontare un tema così socialmente controverso. E non so dire quanto questo mi esalti.

Oserei dire che forse negli anni ’90 – quando non esisteva il mostro Teoria Gender che spunta da sotto il letto per mangiare i nostri figli – avrebbero potuto far passare la cosa, senza definire esplicitamente LeTont come gay.

Sono felice del risultato, sono felice che la casa di produzione che preferisco abbia deciso di fare propria la mia causa attraverso la favola che amo di più. E nel complesso il film mi ha emozionata, i punti negativi che ho trovato non incidono abbastanza da farmi pentire di aver pagato per vederlo. Anzi, probabilmente lo pagherò ancora, quel biglietto.

 

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Però in lingua originale, perché il doppiaggio è sempre bocciato, bocciatissimo.